Il Reportage / Oceania

Ayers Rock e Alberto Sordi

L'Ayers Rock di sera, prima del tramonto: fa anche un po' freschetto

L’Ayers Rock di sera, al tramonto: fa anche un po’ freschetto

Sbuca dopo una collina, arrivando da Alice Springs lungo la Lasseter. E a vederlo da lontano sembra un panettone smisurato, una di quelle confezioni natalizie per comitive, qualche tonnellata di dolcezza piantata in mezzo al niente. L’Australia di Ayers Rock e dintorni è la realizzazione perfetta di quelle definizioni che rendono magico e affascinante questo paese continente: outback selvaggio, never never land, la terra del sogno. Il monolite più grande del mondo, alto 348 metri e con 9 chilometri di circonferenza, è un’incredibile spettacolo della natura, un technicolor capace di presentare sulle stesse rocce un arcobaleno di rossi, gialli, ocra, marrone, che si susseguono e si fondono all’alba e al tramonto in un’orgia sontuosa di tinte ed emozioni. C’è folla, ogni giorno, davanti a questo montagnone per vedere il sole che sorge e lentamente fa schiarire, raggio dopo raggio, quel marrone quasi nero che si libera dalla notte per lasciarsi abbracciare dalla luce. E poi, al tramonto, si replica con la scenografia opposta, le tenebre avanzano e avvolgono il monolite che perde brillantezza e quasi scompare, inghiottito dal buio.

Centinaia, migliaia di persone a scattare foto e girare filmini. Prima, o forse dopo, la grande avventura. Perché Ayers Rock è anche una sfida, è la scalata che accompagna nel club degli eletti, di quelli che questa pietra sacra alla tradizione aborigena non l’hanno soltanto guardata, ma l’hanno fatta propria, scalandola con fatica e apprensione. The Climb è il punto dove si azzarda la conquista, quasi questo monolite fosse un piccolo Everest senza ghiacci ma con un vento che lo spazza violentemente e arricchisce la salita con l’epica di un’impresa. Finta suggestione che può immaginare chi ha i capelli, arruffati dalle folate e resi disordinati, come accade ai volti indomiti dei coraggiosi.

Scherzi a parte, si fatica, almeno un po’, per andare e tornare in un paio d’ore. E si scivola pure, tanto che nella parte iniziale, quella dove si avventurano in molti, c’è una catena ben fissata in terra dove ci si può aggrappare ed evitare che il terreno ripido possa provocare qualche caduta. E’ il punto chiamato <cresta di pollo>, perché è il più impegnativo ed è anche quello dove molti battono in ritirata, invertendo il senso di marcia e tornando indietro, convinti che tutta l’ascesa sia così faticosa. Superato quello strappo, dura una ventina di minuti, si prosegue quasi in passeggiata, seguendo una striscia bianca che guida fino in cima. E lassù, in vetta all’Ayers, un grande libro, con le pagine sferzate dal vento, offre il premio a chi è arrivato fin qui. La firma del volume di chi ha conquistato la cima. In cima si guarda verso il nulla, in questo posto che è davvero al di là del nulla. Si vedono solo le Olgas, altra formazione rocciosa a 20 chilomtero da Ayers Rock. Fra i pensieri, vergati a penna su libro dei ricordi, brilla la frase di un italiano: <Mamma mia, che impressione>. Forse, pensava ad Alberto Sordi.