Il Reportage

Vietnam, avventure a tavola:
meglio il toast di un serpente

vieIMGP6404<We get> mi dice in inglese. <Siamo arrivati>. E gira la macchina come farebbe un romanissimo autista di taxi. Cioè senza preoccuparsi di fare inversione a U in mezzo a una delle più trafficate strade di Can Tho. Che non è Los Angeles, ma è pur sempre la capitale della regione del Delta del Mekong. I risciò non ci sono più, ne sbuca ogni tanto qualcuno per incoraggiare i turisti a scattare foto e sganciare una mancia, ma le macchine, e soprattutto le moto, compongono una bella sinfonia di traffico. Regolata con il pugno di ferro dai vigili urbani di queste parti, che sono una specie di polizia militare. O che, comunque, della polizia militare vorrebbero avere l’autorità, seminando il terrore fra la gente. Come accade ora a questo disgraziato autista di taxi. E’ giovane, la faccia pulita e stanca di chi lavora molto – e credo non solo sul taxi – per mantenere una famiglia che immagino numerosa guardando le tre foto di bambini attaccate al cruscotto.

vietnam-197Non trema, ma quasi, da quando ha sentito quel fischio rumoroso e violento come una sirena che ha segato l’aria tranquilla della sera di Can Tho. Il vigile l’ha beccato e lui ha dovuto accostare e obbedire al rituale di procedure imposte da questo signore, giovane anche lui, in divisa ed elmetto.

<Lasci stare, è colpa mia> provo a dire al vigile. Mi guarda e grugnisce. Anche se parlasse inglese, il tono della risposta non sarebbe diverso. Dice al tassista di aprire il portabagagli, per controllare chissà cosa. Verifica patente, libretto, alza la voce. Non chiede, ordina. Ed il povero autista è sempre più spaventato. Pare che l’infrazione sia grave, punita con una multa salata. Allora provo a intervenire, con una pratica scorretta di colonialismo economico che in Vietnam, però, è ancora efficace. In tasca, piegato in quattro, ho il depliant dell’hotel, il bel Victoria di Can Tho, villa coloniale perennemente assediata da feroci zanzare. Con garbo, cercando di nascondermi un po’ ma nello stesso tempo di farmi vedere, sistemo 10 dollari dentro il depliant e lo porgo al vigile, provando a fargli capire, a gesti, che quello è il mio albergo e che se ci fosse un problema io sono a disposizione e mi può trovare lì. Glielo offro con tutte e due le mani, come si usa da queste parti in segno di gentilezza e, quasi, di deferenza. Il vigile mi guarda e me lo strappa, tenendo per un momento in mano tutto insieme: la patente del tassista, il libretto della macchina, un paio di altri fogli. Ricontrolla tutto, poi con voce burbera dice qualcosa: capisco che è una buona notizia perché l’autista sorride mentre si riprende i documenti. Nella mano del vigile resta solo il depliant.

canthoec04b8682f8fe81cd7d249eb00a24ea0_media_400x300Vado a cena, finalmente, in questo ristorante con vista su Ho Chi Minh. Il Nem Bo è uno dei locali più frequentati di Can Tho, sia per la qualità del cibo – famoso il suo set menu a base di serpente – sia perché offre un panorama unico al mondo. Dal delizioso balconcino coloniale si gode la vista di una gigantesca statua in argento di zio Ho che domina un piccolo parco e il lungofiume, uno dei Nove Dragoni che compongono il delta del Mekong. La statua è alta 15 metri e nella notte, illuminata da grandi riflettori, brilla con prepotenza. E’ impressionante, anche perché è contornata di uccelli e pipistrelli che le danno un aspetto sinistro. Ma ogni mattina viene pulita e lucidata, con il rispetto, affettuoso e grato, che questo popolo riconosce al suo leader scomparso. Ovvio che ci sia una processione ininterrotta, di locali e stranieri, di giorno e di notte, per immortalarsi con Ho sullo sfondo. Ovvio che i tavoli più richiesti, da Nam Bo, siano quelli con vista su quelle tonnellate d’argento: io mi devo accontentare di un piccolo tavolo d’angolo, d’altronde sono solo, che guarda sulla stradina laterale dove però si infila un bel venticello che forse aiuta a tenere lontane le zanzare. E finalmente sono pronto per affrontare il banchetto che sognavo.

Agrodolce

Nei ristoranti vietnamiti il cliente solitario è sempre un po’ malvisto. Per una ragione semplice. Occupa un tavolo dove potrebbero sedere quattro persone e tiene comunque impegnato un cameriere: insomma è antieconomico. E a loro, che stanno sviluppando un senso quasi maniacale del profitto, questo non piace e diventano scorbutici. Ma sono pronti a cambiare espressione e atteggiamento, quando capiscono che il cliente è disposto a spendere.

<Guarda – spiego a questa ragazza brutta e sdentata – facciamo così. Io ordino una serie di cose perché le voglio assaggiare: non è detto che mi piacciano, quindi se chiedo di portarle via non vi offendete. Sul conto non discuteremo, pagherò tutto quello che ordino. Però spiegatemi bene quello che mi date>.

Lei mi guarda e di sicuro pensa che ha trovato un matto. Mi dice che è d’accordo e segna le ordinazioni. Le chiedo cosce di rane fritte, gamberi di fiume alla birra e poi il trionfo della serata, lo <snake set menu>, due portate a base di serpente. Birra e soda. In tasca ho una doppia bustina di Geffer, non si sa mai: se si accendono gli allarmi digestivi, mezzo bicchiere d’acqua con quella potente polverina può aiutarmi ad evitare problemi.OLYMPUS DIGITAL CAMERALa cameriera se ne va soddisfatta: il conto sarà pari a una cena per quattro.

<Non ordini nient’altro?> mi chiede sorridendo una simpatica signora inglese, a tavola con il marito. <Serpente – insiste – ci vuole coraggio>.

<Non è il primo che mangio – le rispondo – spero anche che non sia l’ultimo>.

<A noi hanno offerto il liquore con il serpente, quello che vendono nelle bottiglie con i rettili accartocciati dentro. Siamo riusciti ad evitarlo>.

<E’ alcol puro. Il serpente finisce per avere una funzione quasi decorativa: il gusto non cambia. Quei liquori farebbero schifo anche senza il cobra dentro. Ma tutti dicono che abbiano uno straordinario effetto afrodisiaco>.

<Alla nostra età….>. Sorridono, con perfetto aplomb inglese. Lei mi dice che insieme al marito, un ingegnere impegnato in una serie di conferenze, sta attraversando il Vietnam e che si sono innamorati di questo paese. Anche del cibo. Ma non del serpente.

viet52ab268ce6f966_02553652Che si fa attendere, sulla mia tavola, perché per prime arrivano le cosce di rane fritte. Gigantesche, grandi cinque volte le nostre. Ma buone, anche se la frittura è pesante: qui usano l’olio di cocco o di mais, che garantiscono generalmente una frittura leggera. Forse le hanno cotte troppo, oppure non è la prima volta che le friggono… Comunque si mangiano. Il problema è, semmai, nella birra. La cameriera me l’ha versata nel bicchiere che in un minuto si è trasformato in un’affollata piscina per tre o quattro zanzare affogate in allegria. Che fai, cambi bicchiere? Si finirebbe per non bere mai. Meglio immergere la puntina del mignolo e portare via gli intrusi.

Gli inglesi mi guardano sorridendo. <Buon appetito> mi dicono, mentre se ne vanno. E capisco che un po’ mi compatiscono.

E’ il turno dei gamberi di fiume alla birra: mediocri, anche se a renderli interessanti c’è la solita miscela di sale e pepe che regala a ogni cibo un gusto straordinario. Mentre li azzanno, mi guardo intorno, nel terrazzino con vista su Ho Chi Minh. C’è una fauna umana variegata. Al pian terreno avevo intravisto qualche rumoroso vietnamita e una paio di comitive di viaggiatori. Qui sul terrazzino mi incuriosiscono una coppia e un tavolo di quattro ragazze, probabilmente nordeuropee. Sono lontano per sentire in che lingua parlano, ma la loro pelle, che in origine doveva essere candida, è diventata violacea, i capelli sono quasi bianchi, per quanto il sole deve averli schiariti. Ridono, si divertono, stanno bene, hanno un bosco di bottiglie di birra sul tavolo. Valchirie in libertà.

vietPiù vicina a me, due tavoli oltre il mio, c’è la coppia francese. Non capisco cosa si stanno dicendo, ma è evidente la loro intimità. Lui è di spalle, vedo lei sorridere, felice, radiosa, accarezzare con i suoi polpastrelli il dorso della mano di lui e poi continuare sul palmo, risalire verso l’avambraccio. E’ bella, fasciata da una minuscola canottiera nera che molto fa vedere e altro lascia immaginare. Si accorge di essere osservata e reagisce con la perfidia femminile: libera un piede dal sandalo e accarezza la caviglia del suo compagno. Che si imbarazza subito e si guarda intorno, per controllare che nessuno si accorga di quelle effusioni. Io getto la testa e lo sguardo fra i miei gamberi, che nel frattempo mi hanno pure stufato. Ma torno a guardarla e sarà perché anche lei ha i capelli scuri e un corpo minuto, ma il ricordo vola a <L’amante> di Marguerite Duras, libro meraviglioso, ambientato qui dove la scrittrice passò la sua adolescenza, a 50 chilometri da Can Tho. Il pensiero va soprattutto al film, diretto da Jean Jacques Annaud e con una conturbante Lisa Faulkner nei panni di una ragazza esile e carina, carica di una sensualità travolgente. La francese che mi sta davanti è così. Naturalmente provocante. E lui non è da meno, con il capello riccio, quell’espressione svagata e un po’ annoiata che hanno molti francesi, e che li fa diventare antipatici agli uomini e irresistibili per le donne. Sono una bella coppia. Avranno un dopocena vivace.

Aiutati, ammesso che ne abbiano bisogno, dall’atmosfera di questo posto. Ci sono luoghi che hanno una magia particolare. Qui è così. Il grande fiume, la vegetazione fitta e carnosa, l’aria densa di profumi e umidità che veste la pelle con una carezza invisibile e lieve e rende il corpo ancor più sensibile e accende l’animo di desideri. Il Tropico è sempre tentazione. Anche di qualche mostruosità.

vietdelEccolo qui il mio serpentello, proposto nell’insolita sembianza di spring roll, un unico, grande involtino primavera farcito di carne di serpente. L’aspetto è anonimo, il profumo preoccupante. Taglio a metà l’involtino e suddivido ancora ogni parte. Il boccone, scelgo quello centrale per avere più ripieno da assaggiare, è pronto, ben infilato nella forchetta. Lo avvicino al naso e non arrivano buone notizie: l’odore non è affatto invitante, anche se ad osservare la farcitura non sembrano esserci ragioni di preoccupazione. Dunque, via all’assaggio. Ed è il dramma. Ancora prima di dare il primo colpo di denti, l’odore dolciastro che avevo sentito invade la bocca e anche il naso. E’ una vera alluvione – è proprio il termine esatto – di una puzza micidiale che soltanto dopo il primo morso riesco a decifrare. Questo serpente sa di muffa e fogna, un cocktail nauseante che ammazzerebbe la buona volontà anche di un fachiro.

<Ti piace?> chiede la cameriera sdentata, scivolata fino al mio tavolo senza che me ne accorgessi.

<No> le dico senza fronzoli. <Mi sembra proprio uno schifo>.

Bevo mezza bottiglia di birra per cancellare quel terribile sapore, ma come sempre in questi casi ci riprovo. Il secondo assaggio serve per confermare o modificare il giudizio e quando affronto qualcosa di nuovo concedo sempre una prova d’appello. Ripreparo con cura un bocconcino, ma il risultato non cambia. E’ lo stesso schifo. Sposto il piatto lontano da me e mi mangio un pezzo di gambero affogato nel pepe e nel sale che restituiscono la mia bocca e le mie papille a un mondo accettabile.

vie can tho<Ma che razza di serpente era?> chiedo alla ragazza. Avendo qualche anno prima, e sempre in Vietnam, assaggiato il cobra, avevo un ricordo – non voglio dire entusiastico – ma almeno accettabile. Questo era una specie di tortura.

<Un serpente di fiume, piccolo> dice la cameriera, che appare anche sinceramente dispiaciuta.

Adesso mi aspetta pure l’altro piatto a base di snake, come previsto dal menù. Passa un po’ di tempo prima che sul tavolo sbocci quest’altra meraviglia. Un tempo sufficiente a veder scivolar via i due francesi e le quattro Valchirie. Sul terrazzino sono rimasto solo. Io e il mio serpente, servito in confezione spezzatino, con verdure e funghi. Traccio con la forchetta un itinerario preoccupato in mezzo al piatto: riavvio la prova olfattiva, ma questa volta l’odore non è male, perfino invitante. E’ l’aspetto, invece, a non incoraggiare: brandelli di serpente in una salsa marroncina con qualche pezzo di verdura. Un panorama autunnale. Comunque, si comincia, la forchetta va a comporre il boccone d’avvio.

<Questo ti piacerà – mi incoraggia la cameriera arrivata con altri due colleghi – è serpente grande di terra>.

Allora sì che posso stare tranquillo. La guardo, come se mi aspettassi lo sparo del giudice di partenza a una gara di nuoto.

E gnammete…. Mastico. Mastico. Mastico. Non è male. Sembra uno spezzatino di cavallo un po’ vecchio e rancido. Sarà serpente, ma potrebbe anche essere cane, che qui divorano con grande gusto. Secondo boccone: metto un fungo in più e inzuppo nella salsa. Meglio.

<Ti piace?>.

<Non è male> rispondo. E, in fondo, è la verità.

Terzo boccone e sorso di birra, che nel frattempo è diventata calda. Ne chiedo un’altra e chiedo anche il menu, per vedere se posso concludere questa cena con un sapore familiare. Vado a cercare qualcosa fra i dolci, ma l’occhio mi cade su un piccolo sogno gastronomico. C’è scritto sandwich con prosciutto e formaggio. E’ mio. Lo ordino chiedendo di portarmi contemporaneamente il sandwich e la birra più fredda che hanno. Una meraviglia. Azzanno quel panino che è pure cotto bene, né troppo né poco, con la gioia di un ideale ritorno alle tavole di casa. Poi pago e lascio una buona mancia.

<Ciao, grazie, torna quando vuoi>. Ti credo, ho speso come un banchetto, 40 dollari americani, che qui sono una fortuna.

Fuori, trovo la sorpresa che non aspettavo, quella che con un gesto semplice disegna l’animo nobile di questa gente. Pronta a fregarti, se e quando ci riescono, ma capace di coltivare sentimenti autentici. C’è l’autista del taxi che avevo <salvato> dalla ferocia del vigile urbano. <Hotel Victoria, yes? It’s free for you>. Mi accompagna e non mi fa pagare.

 

Tratto da <Il Drago e la Farfalla>, Sitcom Editore

 

 

 

 

 

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