Il Reportage

Raro, Aitu, ecco le Cook,
naufragio felice dell’anima

La faccia insanguinata è il suo trofeo. La porta a casa come il simbolo della vittoria e lungo la strada esibisce le ferite che l’Oceano gli ha regalato, mandandolo a sbattere contro i coralli: a undici anni ha sconfitto la paura, suo padre sarà fiero di lui. Pupuke è un piccolo Maori e ogni giorno infila sotto il braccio la sua piccola tavola di legno, la minuscola canoa che lo guida verso l’avventura che la ragione concede a un adolescente. Il mito degli avi consegna a Ngatangiia l’origine dei tempi, il punto sacro da dove i Maori delle Cook partirono alla conquista della Nuova Zelanda: il vento agita ancora gli animi e le onde quando ci si affaccia su questo tratto di mare che diventa viola o azzurro, verde o turchino, ma è quasi sempre violento, rabbioso, feroce.isole-cook-aitutaki

Fu difficile per i Maori di ieri andare alla scoperta di altre terre e deve essere difficile per i Maori di oggi imparare ad essere degni dei loro antenati. Pupuke ci prova e conquista il coraggio ad ogni metro, in equilibrio sul suo microsurf artigianale. Il fondale, dove arriva l’onda, è basso e il corallo tagliente come una lama. Il gusto del rischio, il piacere del coraggio mostrato a chi resta sulla spiaggia, inchiodato dalla paura: per chi non sfida il mare, ci sarà un posto di retroguardia nella comitiva della vita, chi rimane a guardare sarà soltanto una riserva. Eccolo Pupuke, in bilico sulla schiuma, ed eccolo cadere, rotolare sul corallo e colorare di rosso il mare turchino. Eccolo Pupuke, che si tocca la faccia e guarda la mano arrossata, che vede le ferite sul corpo e non piange: «L’acqua del mare farà chiudere i tagli».

 LA VITA E’ AVVENTURA Uomini a undici anni, duri già da ragazzini. Perchè la vita è avventura in queste isole che gli occidentali immaginano felici e felici sono davvero. La vita scorre lenta, pacifica, pigra. Rarotonga, l’isola grande del piccolo arcipelago, è i mari del Sud come li racconta la leggenda: dolce e sensuale, come il tamurè che si suona, si canta e si balla tra i giardini e i viali ornati di siepi e fiori, curati meglio dei prati dello Yorkshire e santificati al culto dei morti, con il cimitero di famiglia sotto casa, le tombe dei parenti tra la strada e la spiaggia.

Hanno fede, da queste parti, o perlomeno mostrano di averla. Cook_Islands_Te_Maeva_Nui_FestivalForse perchè hanno scoperto la religione recentemente, i primi missionari sbarcarono nel 1821, e la loro abitudine ad essere liberi ha consentito che su queste isole approdassero gli apostoli di ogni chiesa: perfino con qualche esagerazione, perchè chi va ad Aitutaki, una laguna che abbaglia di bellezza, può incontrare Richard, leader della comunità New Jerusalem della Free Church, la chiesa libera: «Non dovrei dirtelo – confessa con quella faccia da americano, frutto dell’amore tra un sergente Usa e una vahinè delle Cook – non dovrei dirtelo, ma ho parlato con Dio». Non si resiste alla tentazione di domandargli cosa si siano detti ma la risposta è, inevitabilmente, deludente: «Mi ha ringraziato di averlo servito con fedeltà». Lui però insiste: «Ora sono un profeta». L’importante è crederci.

LE SIGNORE CENTO CHILI  Chi si accontenta di pregare lo fa con devozione nei riti della domenica, in una delle decine di chiese di Rarotonga o in una delle due di Aitutaki. Qui, nell’isoletta scoperta dal Bounty prima dell’ammutinamento, il prete cattolico e il pastore protestante combattono, nel giorno dedicato al Signore, la loro guerra santa, misurandosi con il numero dei fedeli e la qualità dei canti. Ed è una delle più belle e affascinanti battaglie del mondo. Comincia con la sfilata delle gigantesche signore delle Cook, raramente meno di cento chili, infiocchettate nell’abito elegante della festa, sempre chiaro, molto spesso bianco, e con il cappello in testa. A San Joseph, regno terreno del cattolicissimo neozelandese padre Don, la tecnologia vince sull’emozione e si canta seguendo le parole in inglese che scorrono su una lavagna luminosa: l’acquasantiera è una grande conchiglia rubata all’Oceano, la platea di fedeli è elegante ma scalza, padre Don porta al collo la catena con la croce ma anche la collana di fiori di frangipane bianchi e viola.isole-cook

Trenta metri più avanti, San Zion, tempio protestante, brilla di vetri a scacchi colorati, un tentativo di imitazione di mosaici più preziosi. Sul pulpito c’è Makatu, pastore di colore che governa una messa trasformata in concerto: qui cantano nella loro lingua e fanno venire i brividi. Sono voci che si rincorrono, acuti che spalancano il cuore e scatenano la mente verso l’infinito del cielo o dell’oceano, voci di bassi che sembrano tamburi, come i rintocchi secchi dei tronchi cavi usati da queste parti. Un’armonia indigena che scava nell’anima, la scuote e la tocca come fosse pelle viva. Il corpo risponde impossessandosi di quel ritmo, battendo il piede, come si fa nelle feste pagane, ma tra queste mura di corallo imbiancate con la calce si invoca Dio, ed è un ondeggiare di spalle tra i banchi della chiesa, è un agitarsi di gambe che fremono perchè sono prigioniere del rito e non possono liberare la voglia di seguire la musica.

  LA NOTTE DEL VENERDI’ Ballare nel nome di Dio non sarebbe affatto strano per questa gente, ma i missionari hanno detto che non va bene, che in chiesa non si balla, e allora bisogna aspettare il venerdì sera per dimenarsi al ritmo della musica. Una strana abitudine ha trasformato il venerdì nel giorno dei piaceri sfrenati e della notte senza fine. Perchè il sabato a mezzanotte i locali chiudono: la domenica, fin dai primi istanti, è giorno assolutamente dedicato al riposo. Talmente rigoroso, il divieto di lavorare, che non funziona nulla, non ci sono nemmeno i collegamenti aerei tra le varie isole. Baldoria di venerdì, dunque, una notte entusiasmante. Perchè è straordinaria la notte delle Cook. La luna piena si alza oltre la banchina del porto: spunta alle sette di sera, gigantesca, rossastra, e verso le undici è candida, luminosa come un diamante, prepotente proprio in mezzo al cielo. Bastano poche nuvole per vedere uno spettacolo da scolpire nell’angolo dei ricordi della mente. Intorno alla luna sboccia l’arcobaleno e se le nubi sono leggere il cerchio dell’iride può diventare anche doppio. Porta fortuna, e quando succede il popolo delle Cook si ritrova con il naso all’insù e il pensiero a Tangaroa, il dio Maori della creazione, della pesca, del mare e del tempo. Ha una casa, così si racconta, sul Needle, Rua Manga nel linguaggio tradizionale, il picco che domina l’isola: da lì vigila sul suo popolo e la notte del venerdì ha sempre molto da fare.ID1171Pic101

Ad Avarua, la capitale di Raro, come viene chiamata Rarotonga, i locali si riempiono dalle nove: Therese, una balera all’aperto per le comitive meno raffinate, con gli uomini ubriachi cinque minuti dopo essere entrati e felici di palpare chiunque incontrino, senza distinzioni di sesso; PJ’s, dove si balla sulla sabbia; TJ’s, discoteca con karaoke, orribile ma di moda. Gli inguaribili turisti affollano gli spettacoli degli alberghi, dove l’astuzia degli impresari è ricorsa a un espediente: basta con gli abusi di malizioso erotismo del tamurè, meglio l’ingenuità spettacolare dei bambini che mimano e fanno sorridere, invece di essere soltanto dei tentativi di provocazione. Sul palcoscenico sfilano quelle meraviglie che tutti sognano di avere come figlie: piccole come una collana di frangipane, che dal collo dondola fino a toccare terra, dolci come il canto delle vahinè, pigre come tutte le creature di queste isole meravigliose, maliziose e annoiate già da pupe, al punto di sbadigliare durante la danza ma pronte, se solo lo vogliono, a risvegliarsi al ritmo ossessivo dei tamburi, per agitare quel gonnellino di paglia oggi ornato di margherite e domani, forse, sostituito da un pareo trasparente. I maschietti si scatenano e provano a imitare quello che hanno visto fare ai grandi, ai padri che con il corpo accarezzano le ballerine. Ma loro sono troppo piccoli e a 5 o 6 anni vengono respinti dalle ragazzine che ne hanno 10 o 12. Ma non si scoraggiano e riprovano, si riavvicinano, azzardano. Qualche successo di pubblico, se non altro, alla fine lo ottengono.

 IL COOKTIME   Ma la vera notte dei mari del sud è al Trader’s Jack, terrazza sul mare con vista sull’infinito. Tre gradini e dal vecchio porto si sale in un pub senza pretese, dove si servono aragoste o gigantesche bistecche neozelandesi, si beve birra, si ascolta musica dal vivo, si balla, si canta. O si resta in terrazza a seguire la scia luminosa del faro che punta verso il nulla e infiamma di luce le onde che si rincorrono, le farfalle notturne e i mosquito, tanti, dannatissimi mosquito, che si incrociano volando e si perdono insieme allo sguardo, appena dopo la barriera corallina. Seduto sull’oceano, come davanti a un grande schermo cinematografico: dove fitrader-jack-s-bar-innchè non compare l’immagine ciascuno fantastica quello che vuole. Nella magia della notte del Pacifico ci sono antichi galeoni che beccheggiano lì dove il faro non arriva, insieme a velieri corsari e vascelli fantasma. C’è il sogno proibito di ciascuno di noi, la voglia di restare qui, dove tutto sembra più semplice, dove non c’è un semaforo e le banche non hanno i vetri blindati, dove non ci sono fumi di inquinamento ma ovunque è un tripudio di profumi e le piante orlano le strade, con siepi di fiori al posto dei guardrail, dove la gente sorride perchè la terra regala frutti meravigliosi e il mare lascia catturare pesci saporiti e giganteschi che si vendono a prezzi ridicoli, qualche decina di euro per qualche decina di chili di tonno fresco.

Le sconosciute Cook, seducenti come un tamurè, dolci come il profumo del frangipane, morbide e sensuali come un corpo unto dal cocco, patria del Cooktime, prendere la vita con calma, non affannarsi, cercare di essere contenti. L’arrivo è entusiasmante, su un aeroporto sottile come un grissino perduto in un mare di azzurro, l’addio è struggente, un tormento che ho subito accanto al faro del Trader’s, nella luce violenta che parte dalla terra ferma, per consumare l’ultima emozione dei mari del Sud. I più romantici regalano anche due lacrime da questa terrazza, i meno teneri versano in acqua un bicchiere di whisky o di rum: per sentirsi parte dell’oceano, per consegnare un brandello della propria vita alle acque che viaggiano tra il tropico e l’equatore, per sapere che un pezzo di cuore navigherà per sempre tra le onde del Pacifico.

 

 

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