Il Reportage

Qatar, il mondo di sabbia
tra petrolio e archistar

Tintinna tutto a Doha, capitale scintillante del Qatar, paese piccolo e vivacissimo. Hanno creato una mini Manhattan in fondo alla Corniche, il lungo viale che costeggia il mare e che nei giorni del weekend – qui sono il venerdì e il sabato, la domenica si lavora – diventa l’allegro passeggio di famiglie che si rilassano sui prati con improvvisati picnic e ammirano il panorama all’ombra dei grattacieli. Dall’altro lato del golfo c’è la vecchia Doha, edifici bassi, come usava un tempo, quando nessuna costruzione doveva sfidare in altezza la torre del muezzin: un principio che hanno voluto mantenere per la più interessante realizzazione della città, il Museo Nazionale. Costruito dall’archistar francese Jean Nouvel, lo stesso che ha realizzato il Louvre di Abu Dhabi, ha la portentosa forma di una rosa del deserto, un intricato gioco di cerchi in cemento armato rivestiti in fibra di vetro che si incastrano fra loro, lamine rosa che si rincorrono e si separano, si incrociano e si allontanano, per disegnare la stessa delicata struttura delle pietre cristallizzate che si raccolgono fra le dune.

Impressiona ed emoziona questa splendida opera, lunga quasi mezzo chilometro con percorsi espositivi di un chilometro e mezzo, 52 mila metri quadrati di superficie, concepita e definita come una straordinaria operazione di “marketing politico e territoriale”, che usa arte, cultura e architettura per dare una luminosa immagine del paese. Il museo è una sapiente realizzazione che conquista più per il contenitore che per il contenuto. Ma per i qatarioti ogni visita è una significativa iniezione di orgoglio nazionale, alla scoperta delle proprie tradizioni, della vita nel deserto, della storia del proprio paese. E per dare un ulteriore tocco di contemporaneità, alla guida del museo, presidenza e direzione, ci sono due sceicche, titolo che vale anche al femminile, incarichi importanti che cancellano ogni sospetto di sudditanza delle donne nelle gerarchie della società qatariota.

Sono molti gli architetti che hanno contribuito a fare di Doha una città urbanisticamente interessante ed esteticamente gradevole – da Leoh Ming Pei (lo stesso che ha progettato la piramide del Louvre a Parigi) ad Arata Isozaky (autore del City Life di Milano) a Zaha Hadid (che a Roma ha realizzato il museo Maxxxi) – ma Jean Nouvel appare come il preferito. A lui si deve anche la Doha Tower, quasi la citazione di un suo altro lavoro, la Torre Agbar di Barcellona, ma che sulla Corniche è stata impreziosita con un delicato ricamo di ferro e cemento, un grazioso pizzo di qualche tonnellata. Svetta lungo la parte finale della Manhattan di Doha, quella che di sera brilla delle luci sfavillanti dei grattacieli, rosso, blu, bianco, acciaio, che squarciano la notte e sfidano il cielo di questa America d’Arabia.

Poi c’è l’altra Doha. Quella dei souq e del mondo della falconeria, con l’ospedale dove si curano i rapaci e i negozi con gli accessori, dai cappucci, che qui chiamano burga, e servono a far stare tranquilli gli uccelli, ai guanti in pelle, ai laccetti, alle bilance per controllare il peso. Un mondo sconosciuto e affascinante, al quale si può accedere perfino durante i pasti. Cosce di pollo spellate sono il banchetto dei falchi, imperturbabili, anche con spettatori a un metro di distanza, mentre affondano il becco nella carne bianca, sbattono le ali e inscenano una protesta silenziosa e composta, stufi di restare ancorati a trespoli che sono il loro trono e la loro prigione: una volta alla settimana vengono portati lontano dalla città, a fare esercizi e allenamenti, quasi un regalo, qualche ora che per loro profuma di libertà.

C’è grande atmosfera nel souq Waqif: si popola dopo il tramonto, quando cominciano a ribollire le pipe ad acqua, nei tavoli dei caffè all’aperto compaiono hummus e tè, la gente si incontra, chiacchiera, passeggia, fa shopping, per i vicoli si rincorrono invisibili nuvole di aromi di spezie. Brilla e vigila su tutto, come un faro della fede e non solo, la moschea a spirale, un minareto che si avvolge su se stesso, struttura originale che di sera si illumina di una luce dorata e perfino romantica. Un universo antico e delicato, affascinante, quasi senza tempo, ristoranti persiani, con musica e yogurt, tentazioni della cucina locale, dal machboos, riso stufato e speziato con frutti di mare o carne, all’arrosto di vitello su un letto di riso e noci, e ancora capra o pecora farcita e bollita. Per i nostalgici, c’è sempre qualche tentazione italiana, pasta e pizza non mancano mai. Come accade da Katara, centro culturale e punto di ritrovo, con una grande arena per la lirica, molto amata anche qui, gallerie d’arte, installazioni all’aperto, fra le quali spicca una Rolls Royce, per gli emiri è poco più di un’utilitaria, servita come ispirazione di estrosi artisti per realizzazioni cromatiche, quasi fosse una parete per graffiti. La espongono come un tesoro, anche se agli occidentali sembra più un oltraggio.

Basta mezz’ora di auto e appena ci si allontana da Doha e si incontrano tende e insediamenti, dove assaggiare il primo sorso di un robusto tè nel deserto mentre gli autisti, barba e copricapo colorato, sgonfiano le gomme delle 4×4 affinchè la tenuta aumenti e sulle dune si possa giocare a fare pazzie, salire e scendere in velocità, uno slalom su quattro ruote, derapate, arrampicate, zigzag e chi non sa o non può resistere agli sbalzi e alle sollecitazioni chiederà uno stop, una pausa ristoratrice. Il panorama è bello dall’alto delle dune, domina l’Inland, come lo chiamano loro, il mare interno, Khor Al Adaid in arabo: la riva opposta è già Arabia Saudita, un paese non più amico amico, e infatti motovedette sono schierate dall’una e dall’altra parte, a controllarsi reciprocamente. Il deserto è punteggiato di antenne e stazioni, ma anche di enormi contenitori per i rifiuti dove volontari ecologisti vengono a scaricare ogni settimana quel che raccolgono fra le dune, abbandonato da turisti scapestrati che perfino qui, trascurano il rispetto dell’ambiente. Eppure è una Riserva naturale riconosciuta dall’Unesco, uno dei pochi luoghi al mondo dove il mare si insinua in profondità nel cuore del deserto. Qua e là spuntano miniresort attrezzati, con comodi lettini dove sdraiarsi al sole, o al riparo di confortevoli gazebo, ristoranti, camere per dormire e immaginarsi, per una notte o due, comodi seguaci di Lawrence d’Arabia. Ma capita anche qui che arrivi lo Shamal, il vento capace di scatenare tempeste di sabbia: se comincia a soffiare, in pochi minuti non si vede più niente.

La natura non è sempre amica da queste parti. Anche Doha, a volte, viene avvolta dall’abbraccio della sabbia, ed è il momento di rifugiarsi all’interno. Magari nel museo di arte islamica, capolavoro progettato dal cinese naturalizzato americano Ieho Ming Pei, 1400 anni di storia in splendide sale affacciate sul mare. E, per finire, volendo, pausa golosa al quarto piano, nel ristorante firmato dallo chef superstellato Alain Ducasse. E’ il Qatar, fiero delle tradizioni e del suo domani che è già arrivato.

 

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