Il Reportage

Metropoli Manila
“Benvenuti a Colf City”

 

manilaEccola Colf City, la patria delle colf, la grande casa da dove arrivano le vere padrone delle nostre case, le ragazze che stanno con i nostri figli più tempo di quanto non ne passiamo noi, quelle che scivolano nelle camere e puliscono silenziose, non si vedono e non si sentono, cucinano bene, sorridono. E chiacchierano ore al telefono con le altre filippine, hanno due o tre cellulari, adorano la tecnologia, vestono con gli strass, si truccano poco ma si fanno tagliare i capelli dai loro parrucchieri trapiantiati nelle nostre città e qui da noi hanno dentisti, banche, centri commerciali. Superorganizzati, questi filippini. In Italia ce ne sono più di 100 mila, che sarebbe, più o meno, una città come Bergamo. Gente per bene, lavoratori con una grande capacità di sacrificarsi per la famiglia, capaci di sopportare sofferenze atroci, di stare lontani dai figli per anni interi. Ci sono donne travolte dal lavoro qui da noi e là dilaniate dal dolore, madri che quando tornano a casa per le ferie devono affrontare la devastante angoscia di essere rifiutate da figli che non le vedono per anni e quando le incontrano non le riconoscono più, le considerano delle estranee. Così, quando tornano da noi, lavorano e piangono, lavano e stirano, poi si chiudono in bagno e tirano giù lacrime disperate. Ma vanno avanti, guadagnano lo stipendio e mandano i soldi a casa. Onore a tanto impegno e al coraggio che dimostrano di avere.

_Manila_60_1E’ che sono abituate dall’infanzia a faticare: la vita, per chi nasce a Manila o nelle isole, non è affatto facile. A meno che la famiglia non sia straricca, ma questo è un altro discorso. Così chi ha bisogno, la stragrande maggioranza, fa la valigia e va a cercare fortuna all’estero. Una migrazione cominciata all’inizio del ‘900, verso le piantagioni di ananas delle Hawaii. Poi furono infermiere, medici, tecnici sanitari ad andare a colmare il deficit di personale negli Stati Uniti o in Canada. Toccò quindi agli operai edili e molti uomini raggiunsero il Medio Oriente. Infine emigrarono le lavoratrici domestiche, le colf, indispensabili nelle economie in espansione per consentire anche alle donne di lavorare. Oggi sono quasi 10 milioni i filippini occupati all’estero, oltre il 10 per cento della popolazione.

<Forse hanno ragione loro, ma io non mi sposto da qui> dice Erwin, 33 anni, tassista di Manila. La macchina non è sua e la divide con un amico: <Lavoriamo un giorno per uno>. E quando tocca a lui, passa 24 ore di fila alla guida: <Per forza, altrimenti non si va avanti. Non posso sprecare nemmeno un’ora. Significa che alle 7 di mattina ci diamo il cambio, sto per strada tutto il giorno e alle 7 della mattina dopo vado a dormire>.

makatiSalgo sul suo taxi quando è ancora fresco e riposato, guida appena da un paio d’ore, gli occhi non sono ancora rossi di stanchezza, è di buon umore, ha accompagnato i bambini a scuola. <Abbiamo due figli, sono la nostra vita, un maschio di 7 anni e una femmina di 5. Anche mia moglie lavora, ha una piccola attività, un piccolo negozio… una specie di negozio…>.

Mi guarda dallo specchietto retrovisore, con un misto di imbarazzo e soddisfazione. Perché di fronte al turista occidentale si sente un po’ in difficoltà, quasi povero, ma qui la sua è una vita più che dignitosa. Gli dico che deve essere soddisfatto, perché anche con due figli riescono a stare tutti insieme, non hanno avuto bisogno di emigrare. <E’ vero, di questo siamo molto orgogliosi, non so come avremmo fatto se avessimo dovuto allontarci dai bimbi. E devo ringraziare moltissimo mia moglie, lavora e bada ai ragazzini. Non ha proprio un negozio, ma taglia e cuce le stoffe, rammenda, è anche capace di disegnare e realizzare abiti, è molto brava. E porta denaro a casa>. Sorride finalmente, fiero di far star bene la propria famiglia.

Lui guida e io guardo Manila, i grattacieli di Makati, il business district, una specie di invenzione nel centro della città. Qui tutto è pulito, in ordine, quasi sfarzoso, eserciti di vigilantes armati che presidiano viali e villaggi, come li chiamano, zone residenziali dove si entra dopo aver superato cancelli e sbarre. Solo il traffico è un caos, come nel resto della città.

manila-streetsFermi a un semaforo ci ritroviamo circondati da una masnada di ragazzini. Sporchi, mezzi nudi, con magliette lacere e calzoncini strappati, scalzi. Sorrido, come sono abituato a fare.

<Li vede questi qui? Sono pericolosi>.

Ma se chiedono l’elemosina, rispondo a Erwin.

<Non apra il finestrino. Se infilano una mano è finita, rubano tutto quello che trovano dentro la macchina. Guardi quella ragazzina, piccola com’è, entra da una fessura>.

Obbedisco e non apro. Ma continuo a guardarli e il ragazzino più grande, una specie di capobanda, fissa i suoi occhi nei miei, uno sguardo contro che sa di sfida. E’ un bel bambino, sveglio, sfrontato, coraggioso. Ricorda gli scugnizzi di una Napoli antica, come loro è figlio della strada, cresciuto fra i bisogni e la capacità di inventare soluzioni. E adesso ci prova. Con un cenno del capo ordina a uno più piccolo di lui di insaponare il parabrezza del taxi. Lo fa per sfregio, perché sa che non avrà nemmeno una moneta e allora, sfrontatamente, si vendica come può, sporcando quel vetro che non pulirà mai. E quando scatta il verde, accompagna la partenza del taxi con una manata sul cofano e uno sputo al finestrino del guidatore. Erwin è un mite, scuote appena la testa: <Che li fanno a fare questi figli se poi li abbandonano?>.

manila3838630371_886c2b563eLa risposta è fra i vicoli e le strade per i quali passiamo. Bidonville, miseria, sovrappopolazione, lavoro che non c’è, fame. E poi, all’improvviso, tornano grattacieli, viali alberati, villaggi residenziali. <Ecco – dice Erwin – siamo arrivati>.

Incastonata fra una decina di torri di acciaio e cristallo, c’è una sterminata piazza verde e bianca. Il verde degli alberi e dei prati, il bianco del sacrario. In 370 ettari ci sono 17 mila croci, 164 stelle di Davide, 3740 tombe di militi ignoti, i nomi di 36.286 soldati dispersi in azione. Sono Marines, Rangers, Seals caduti nel Pacifico e nelle battaglie per le Filippine tra il dicembre 1941, vennero invase dai Giapponesi subito dopo l’attacco a Pearl Harbour, e il settembre 1945. Un giardino del riposo eterno, custodito come un piccolo gioiello dove ogni giorno vengono annaffiati e sistemati con cura i prati e le aiuole, una moquette verde soffice e perfetta, pulite le tombe dove nemmeno una foglia resta a macchiare il candore del marmo italiano. C’è il silenzio dei giusti che hanno cacciato gli alleati dei nazisti, c’è un vento lievo che fa respirare nella calura di questa città dove ancora oggi si utilizza quel che gli americani hanno lasciato.

manila_cemetery_with_cityLe jeep dell’US Army sono diventate jeepney, con qualche modifica nella carrozzeria, e come piccoli autobus portano la gente in giro per Manila. C’è gratitudine nei confronti degli americani, che qui hanno combattuto e sono morti. Certo, non hanno fatto soltanto opere di bene, ma sono tuttora considerati un popolo amico. Molti studenti di architettura vengono a disegnare dal vivo le prospettive neoclassiche del Memorial, gli emicli simili al colonnato di San Pietro, due braccia che sembrano protendersi verso le sterminate colline punteggiate di croci. <Alla loro memoria, il paese offre la sua gratitudine come un fiore che vivrà per sempre> è scritto nella piccola cappella, proprio accanto all’altare dove un mosaico rappresenta una giovane donna che tiene in braccio dei fiori, simbolo degli ideali di libertà e giustizia.

<Non è che le hanno sempre azzeccate tutte, questi americani> mi dice Erwin quando risalgo in macchina. <Loro sostenevano Marcos, ed era un bandito. E non è stato l’unico errore>. Più del presidente Ferdinand Marcos, che mandò perfino dei soldati filippini a combattere nel Vietnam del Sud, è passata alla storia la moglie Imelda, la signora delle scarpe. Ne cambiava tre paia al giorno, tutte costose ed eleganti. Quando la rivoluzione democratica di Cory Aquino costrinse i Marcos a scappare, era il 1986, il destino punì Imelda lasciandole appena il tempo di calzare un paio di espadrillas: si racconta che lei fosse furibonda, ma gli elicotteri mandati da Reagan non potevano aspettare che scegliesse gli abiti e si rifacesse il trucco. Le quasi 3 mila scarpe che lasciò nel palazzo non furono distrutte né andarono perdute. Una parte, 749 paia, sono state raccolte ed esposte in un museo, il Marikina Shoe Museum in J. P. Rizal street. Ma una seconda nemesi storica ha voluto colpire la passione di Imelda: tacchi 12, ballerine e decolletè sono state attaccate dalle termiti, divoratrici avide e instancabili. Una discreta quantità sono state danneggiate. Ora si proverà a restaurarle, e alcuni sponsor stranieri sarebbero disposti a stanziare un bel po’ di fondi. Che forse converrebbe utilizzare in altro modo.

manila700_g589maiygonyiibqd0lrllrrqb7mum6nNella capitale filippina profuma d’America anche l’hotel Manila, dove dal 1936 al 1941 visse il generale Douglas MacArthur, quello che chiamavano il Cesare degli Stati Uniti. Un uomo con un vero caratteraccio, si dice, ma il tempo addolcisce anche i ricordi spiacevoli e l’appartamento dove visse ancora oggi viene proposto come la <suite MacArthur>. Degli arredi di allora resta traccia nell’Archivio, una specie di museo dell’albergo dove sono esposte le foto degli ospiti illustri, da Glenn Miller a Bob Hope, da Michael Jackson a Bill Clinton, dal Principe Carlo a Marlon Brando, fino a Romano Prodi, che venne nelle Filippine in visita ufficiale quando era presidente del Consiglio. E’ l’albergo dell’establishment, superpresidiato, controllatissimo, con un pianoforte a fare da colonna sonora e un pianista con gli occhi a mandorla che a ogni mezzogiorno saluta gli ospiti con uno struggente <Strangers in the night>.

E’ un monumento, l’hotel Manila, a quella Manila che non c’è più, quando lo sfarzo coloniale ne aveva fatto una delle città più scintillanti d’Asia. Oggi restano i rimpianti. E le curiosità. Come quella esibita nelle case spagnole, alcune trasformate in museo, dove anche il bagno era concepito come luogo di socializzazione. Moglie e marito potevano, se volevano, provvedere insieme a quelle necessità che noi affrontiamo oggi in assoluta solitudine. Un gabinetto con doppia seduta, e relativa doppia tavoletta di legno, è visibile nella Casa Manila, di fronte alla chiesa di Sant’Agostino: sedersi in coppia era abitudine molto diffusa, un momento per fare quattro chiacchiere in intimità. Forse non apprezzato da tutti, tant’è che con il tempo, quell’uso si è smarrito.

Manila_golf_club_course,_November_2011Quel che il correre dei secoli non sembra intaccare, anche qui nelle Filippine, è un certo modo di essere galanti. Almeno da giovani, perché in età matura, così dicono le signore, i maschi smarriscono cortesia e anche educazione. Con gli anni, peggiorano. Ma da ragazzi, sanno bene come comportarsi. Come si vede fra questi studenti del liceo Letran, liberi all’ora di pranzo di passeggiare nel Rizal Park, proprio dietro l’istituto. <Una scuola carissima> mi aveva spiegato Erwin, <costa una fortuna. Poi chi esce da lì va a studiare negli Stati Uniti e in Inghilterra. Sono i filippini che non hanno problemi, un altro mondo rispetto a noi>. Sciamano a gruppi verso il parco, allegri, felici di una mezz’ora fuori dalle aule, entusiasti e imbarazzati, come tutti gli adolescenti, di intrecciare i primi flirt. Le ragazze, in rigorosa uniforme blu con gonna a pieghe fino al ginocchio, si proteggono dal sole con gli ombrelli: la pelle scura non è amata da queste parti, si abbronza chi lavora nei campi e dunque queste studentesse, l’elite di Manila, cercano di mantenere le carnagione bianca. Ridono, scherzano, ma con garbo, sono tutti educati, disciplinati, composti. C’è soltanto una ragazza che non ha la divisa: sfoggia un paio di calzoncini molto corti, ma soprattutto le gambe che ci sono sotto, ha un po’ di trucco e un filo di rossetto, è più carina delle altre, già smorfiosa. Ed è l’unica che vanta una specie di cavalier servente, un compagno di scuola che impugna per lei il parasole: lui lo tiene, lei passeggia all’ombra. Avrà si e no 16 anni, già furba. Anche a quell’età, un paio di gambe lunghe aiuta.

manila_cathedral_in_hdrIl parco si popola di ragazzi e anche di qualche prete che arriva dalle molte chiese vicine. Manila ha un’altissima concentrazione di banche e luoghi di culto. E anche un fiorente mercato di oggetti sacri. Dai santini alle statue, vendono di tutto. Anche nei grandi magazzini superlusso di Makati, architetture ardite e rispettose dell’ambiente, con edifici affacciati su un piccolo parco al centro del quale c’è una chiesa senza pareti. Greenbelt è lo shopping center più esclusivo, con griffe importanti, ristoranti eleganti, come Myron’s o Kà, raffinatissimo giapponese. Ma la capacità filippina di far convivere tutto e il suo opposto, è riuscita a trovare spazio anche a una famigliola che al pian terreno ha attrezzato la vendita di statuine e gigantesche rappresentazioni della Madonna e Sant’Antonio, crocifissi per niente rasserenanti e sorridenti Padre Pio, famoso fin quaggiù. <Li spediamo dappertutto, ma sono leggeri, se vuoi li puoi anche portare via>. Un Sant’Antonio di un metro, grandezza quasi naturale, costa 20 mila pesos, 370 euro, una Madonna da 40 centrimetri, 8 mila, 148 euro. <Italiano? Facciamo lo sconto. Però fai benedire dal Papa, così la statua protegge anche noi>.

 

Tratto dal libro <La mia Asia – Trent’anni di viaggi in Oriente> Lt Editore

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