Europa

Sarajevo, ritorno al futuro

safontanaSarà ieri, a Sarajevo. Sarà ieri che esplodevano le bombe, i razzi bruciavano il cielo e le granate atterravano fra la gente e le bancarelle, in mezzo ai mercati. Sarà ieri, ma oggi è già domani a Sarajevo. Con la piazza della Fontana invasa da bambini festanti che rincorrono i piccioni, comitive di turisti e venditori di granaglie. Scene di normale vita quotidiana, di un popolo in cerca di rinascita e serenità, che sogna sorrisi e sonni non interrotti. <Non dormo più – racconta Goran – e sai perché?>. Pensi agli incubi, alle devastazioni, pensi ai tormenti dell’Europa presente per caso ma assente per scelta da una guerra che alla fine del XX secolo ha provocato più di 100 mila morti. <Sai perché non dormo più? Perché anche sotto casa mia è arrivato un pub, la musica rimbomba fino alle due di notte e io non riesco più a riprendere sonno>.

satunnelRide, quest’omone che accarezza i 60 anni ed è sopravvissuto all’assedio più lungo dei tempi moderni, quattro anni dentro una Sarajevo isolata, senza acqua, né luce. Viveri e armi arrivavano grazie a un tunnel di 800 metri scavato sotto la pista dell’aeroporto, ora trasformato in attrazione turistica e ribattezzato il “Tunnel della vita” o “della speranza”. Passarci dentro fa venire i brividi, e non per il freddo. Vent’anni dopo, si ricomincia a vivere. Basta qualche raggio di sole perché Bascarsija, il cuore di Sarajevo, costruito nella metà del 1400, diventi un piacevole salotto all’aperto, un puzzle colorato di divanetti viola e verdi, bianchi e blu dove si beve caffè alla turca e tè alla menta, si fuma la shisha, la pipa ad acqua, e si divorano dolcetti al miele o cevapcici, focacce con salsicce di carne macinata. Oppure si fa shopping nelle botteghe dove vendono di tutto, dai gioielli alla lingerie, dai libri antichi alle spezie. Piccole gioie, che oggi non sembrano più scontate. Come altre semplici libertà: attraversare una strada senza paura di essere colpiti da un cecchino, aprire una finestra, vedere l’acqua scendere dal rubinetto. Ogni cosa ha ritrovato un sapore non banale. Perché c’era un tempo in cui si era perso tutto e tutto sembrava perduto, era rimasta soltanto la speranza e anche quella si smarriva giorno dopo giorno. Oggi gli abitanti di Sarajevo sorridono mentre assaporano un bicchiere di vino, sgranocchiano un burek fresco, pasta sfoglia ripiena di carne o di spinaci e feta, mentre fanno tardi la sera, felici di perdersi in un’allegria ritrovata, quasi volessero recuperare il tempo perduto.

lineaVent’anni fa, appena vent’anni fa, qui si moriva per attraversare un ponte, per raggiungere un amico o tornare a casa dalla famiglia. E invece dieci anni prima, le Olimpiadi invernali si erano svolte sulle splendide montagne qui intorno: tutti gli impianti, ormai, sono abbandonati o distrutti. Pace e guerra, in un fazzoletto di tempo. Oggi è rimasto un solo confine che si supera con un passo e senza passaporto, perché è una linea ideale che non divide ma serve a incontrarsi, una scritta a terra nella Ferhadija Saraci, la via centrale, dove Oriente e Occidente si abbracciano, da una parte il souk e dall’altra negozi e shopping center. Tutto è animato da un’euforia nuova in questa città che era chiamata la Gerusalemme dei Balcani, perché a pochi metri l’una dall’altra si ritrovano la grande moschea, la cattedrale cattolica, la chiesa ortodossa e la sinagoga. Hanno distribuito pace all’anima di ogni credente prima che la follia omicida di una guerra utilizzasse quelle fedi come una ragione per uccidere. Preghiere ma non solo: Sarajevo sa anche essere orgogliosamente laica. <Sono bosniaca e atea, non credo e penso non dia fastidio a nessuno. Mio marito è felicemente musulmano e non ci sono problemi> dice Dalila Sinanovic, titolare del ristorante più apprezzato di Sarajevo, “Le 4 stanze di Mrs Safijia”, (“4 sobe gospode mrs Safija”) in attesa dell’ufficializzazione della prima stella Michelin. <La città sta rinascendo – dice – ma bisognerebbe fare più in fretta e ci sono ancora molti problemi. A volte la nazionalità è ancora ragione di divisione, come se si combattesse una specie di eterna guerra fredda. Servirebbe una maggiore apertura mentale, per far star meglio tutti>. Decisa, determinata, volitiva, rifiuta il vittimismo che alcuni usano ancora come alibi. <L’impegno paga: a Sarajevo o altrove, chi lavora duro ottiene sempre risultati. Servirebbero più coraggio e maggiori investimenti>.

coloseum_club_01Ma intanto qualcosa si è mosso. Un colosso del turismo, il gruppo sloveno Hit, ha aperto il Coloseum Club, un Casinò con roulette, slot machine, ristorante, spettacolo, una frustata di energia nella notte. Sarajevo cerca risposte da dare a gusti diversi perché è davvero multiculturale, multireligiosa, multietnica. Nessuno si sorprende se vede emiri barbuti entrare al casino in abiti bianchi, sedersi accanto a signori con cravatta scura o a lady piuttosto scollate. Tolleranza non è più un’astrazione ma un’abitudine ritrovata. Mondi diversi convivono serenamente, e le ragazze velate non voltano più la testa dall’altra parte per non vedere donne con il seno gonfiato dalla mano dell’uomo. Vivace e curiosa delle novità, Sarajevo è popolata di giovani che ogni sera sciamano nelle strade del centro, entrano ed escono da locali dove si suona dal vivo ogni tipo di musica, affollano pub, brindano in strada, si incontrano nei caffè all’aperto. Sono, le loro, vite restaurate.

sacaffe2Strano destino, quello di Sarajevo. Inaugurò il XX secolo con l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, che scatenò la Prima Guerra Mondiale e ha chiuso lo stesso secolo da vittima di un tragico assedio. Non c’è famiglia dove non manchi qualcuno, un figlio, un genitore, uno zio, un marito o una moglie, e ogni quartiere splende del triste candore di cimiteri tenuti come giardini. Sotto il museo dedicato a Izbegovic, primo presidente della repubblica, c’è il cimitero di Kovaci: impressionante. Da lì si vede tutta Sarajevo, il fiume che scorre pigro, il ponte Latino, la biblioteca bruciata e ora restaurata, cupole e minareti. Venire qui è una piccola odissea nella memoria e negli affanni del secolo appena finito. Tra gente che esibisce la convinzione, ma sarebbe meglio dire la segreta speranza, che Sarajevo possa essere un giorno una città come tutte le altre. Non lo è ancora, piegata sotto il peso della storia recente. E forse non lo sarà mai. Ma negli itinerari di un viaggiatore, è una tappa che non può mancare.

 

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