C’è un posto per perdersi in questo Laos che tutti, o quasi, immaginano come un luogo incantato per ritrovare i ritmi umani del vivere senza stress. Questo posto ha un nome curioso, che fa simpatia, Vang Vieng. Fa ripensare al va-e-vieni, un movimento interminabile, senza sosta. E infatti è così. Ad andare e venire sono soprattutto giovani viaggiatori del nord Europa, che arrivano fin qui attratti non tanto dai panorami straordinari, quanto da un’anarchia di vita dove sembra che tutto sia possibile e concesso, senza frontiere visibili tra lecito e illecito, fra quel che fa vivere divertendo e quel che fa morire in un attimo o dopo una terribile agonia.
La passione per Vang Vieng si è diffusa da qualche tempo fra le comitive che cercavano un altro luogo senza regole, che somigliasse un po’ alla Goa degli anni Settanta, ai villaggi del triangolo d’Oro degli anni Ottanta. Lo hanno trovato qui sulle colline del Laos, dove la forza di qualche manciata di dollari fa chiudere gli occhi a una polizia che il più delle volte finge di fare quel che può e quasi sempre non fa proprio niente in cambio, appunto, di un po’ di denaro.
Perfino il Guardian, giornale inglese attento a mode e tendenze, vigile nello scoprire i nuovi palcoscenici del mondo che cambia, si è occupato di questa cittadina laotiana e ne ha scritto con toni preoccupati. Perché qui, ogni anno, muoiono decine di persone. Alcuni dei giovani che non sono più tornati a casa erano inglesi, e di qui l’allarme. Ma Vang Vieng è ben conosciuto da tutti, ormai e il pullman che ogni giorno parte da Vientiane è carico di passeggeri di ogni dove: i biglietti non costano niente e semmai c’è una specie di bagarinaggio in alta stagione, con una vendita a prezzi maggiorati che ha per teatro le stradine centrali della capitale. Il rincaro riguarda soprattutto i posti sugli autobus con aria condizionata, o almeno con i ventilatori: sugli altri si soffoca. C’è chi guadagna qualche decina di dollari al mese con questo stratagemma, che a Vientiane possono diventare una sommetta interessante.
Ci vogliono tre o quattro ore per arrivare fin quassù, 160 chilometri da Vientiane, e l’arrivo è vicino alla vecchia pista d’atterraggio dell’Air America, la compagnia sotto la quale si nascondevano le azioni della Cia: una specie di cattiva fama che per i più superstiziosi avvolge tutto quel che accade qui in una luce sinistra, quasi fosse una maledizione antica o una vendetta degli spiriti del luogo.
Su queste montagne, dove da sempre si coltiva e si consuma l’oppio, una tradizione millenaria vuole che le donne maltrattate o picchiate dai mariti, perfino alcune vedove che si sentono abbandonate, decidano di liberarsi di tutti i problemi seguendo un antico rituale: una bella fumata d’oppio, per dimenticare e addolcire il passaggio finale, provocato da un succo di lime. La combinazione di oppio e lime può uccidere e da strumento di onorevole suicidio è diventato per gli scriteriati che vengono qui a sfinirsi, una specie di roulette russa, una sfida insensata e micidiale. Come nel film “Il cacciatore”, giovanotti e anche ragazze si sfidano offrendo il proprio corpo all’aggressione di una chimica naturale che distrugge la vita con quella miscela di oppio e lime: non è il proiettile che capita nella canna della pistola, ma un infarto che stronca. Qualcuno sopravvive, qualcuno muore. E qualcuno scommette sulla vita e la morte.
E’ questo forse l’aspetto peggiore e più preoccupante di Vang Vieng. L’assoluta assenza di ogni accenno di moralità, di ogni minimo codice etico, di ogni forma di rispetto per la vita propria e quella altrui. Venirsi a perdere è il desiderio di questi ragazzi, il male oscuro che gli spegne l’anima, prima ancora del corpo. Poi succede che muoiano anche per altro, per una serie di prove di coraggio o di follia che qui vengono proposte come in altri luoghi – arrampicate su pareti rocciose, tubing, altalene, visite speleologiche, bunj jumping – ma che a Vang Vieng si svolgono senza rispettare alcuna misura di sicurezza. Molte di queste attività hanno per teatro e palcoscenico un fiume, il Nam Song, che ha anche una sua poesia. Ma gli scellerati che dalle disgrazie altrui vogliono far profitto, invece di arginare i pericoli, cercano di moltiplicarli, inneggiando alle scariche di adrenalina che si provano, ad esempio, cercando di discendere il Nam Song di notte, al buio, facendo lo slalom fra qualche masso che sporge o evitando le rive rocciose. Non solo. Incoraggiano a cimentarsi in questa già folle prova presentandosi <sballati>, strafatti di oppio o ubriachi, o anche entrambe le cose insieme.
Sono affogati in tanti, così come in tanti sono precipitati dal bungj jumping, si sono schiantati cercando di arrampicarsi una parete liscia e dritta come una spada infilata in terra. E Vang Vieng, da semplice e tranquillo villaggio di un Laos di campagna, si sta guadagnando la fama di piccolo Inferno d’Oriente.
Tratto da <La mia Asia – Trent’anni di viaggi in Oriente>, Lt Editore
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