Perfino qui. Perfino a Tokyo il quartiere rosso parla italiano. Si incontrano tutti qui e senti il vociare urlante di romani o milanesi e distingui accenti, riconosci intenzioni e imbarazzi. Kabuchico non è un bel posto ma il luogo dove gli uomini di Tokyo vanno a perdersi per qualche ora o per una notte, incontrando ragazze che qui hanno deciso di perdere già la loro vita.
Le giapponesi non sono attraenti, almeno secondo i criteri classici della bellezza occidentale: e quelle di questi locali non sono le migliori. Però sanno sorridere e accontentare i clienti, riuscendo a svuotare i loro portafogli: a volte basta soltanto farli bere e cantare nei karaoke, dove consumano quel che resta delle loro energie. Spesso finisce lì la triste serata di comitive di impiegati in abito grigio e camicia bianca, fatti a pezzi dal lavoro e in cerca di distrazioni. Qui trovano altre sconfitte, provocate dall’alcol e dalle coccole veloci delle ragazze, svelte di pensiero e di azione: brividi di qualche attimo e crollano a dormire su divani unti e macchiati di terribili localacci. Se ne può scegliere uno qualunque, nel dedalo di viuzze affollate di Kabichuco. Si sale una rampa di scale, finchè da dietro una tenda si sentono esplodere musica e canzoni, mescolate, ogni tanto, a sussurri e grida. Quando si prova ad entrare, è un’umida mano spalancata sulla faccia ad impedire l’ingresso. <Solo per giapponesi> è quello che gli addetti alla sicurezza sanno dire in un accenno di inglese. L’unica cosa che si può fare è sorridere, provare a gettare uno sguardo, tanto c’è poco da vedere, e poi obbedire all’imperioso invito ad andare via.
E’ triste la notte di Kabichuco, anche se il mondo con gli occhi a mandorla si rovescia qui con la convinzione, o forse è meglio dire la speranza, di trovare qualcosa di divertente da fare. Ci sono cinema e ristoranti, infernali sale con ogni tipo di gioco elettronico, locali da ballo e dance floor, club privati per incontri più ravvicinati, ma su questo genere di intrattenimento il panorama diventa più comune e meno interessante. Mancano i soap bath, i bagni di sapone, dove i signori clienti vengono avvolti in nuvole di schiuma, massaggiati, maltrattati, addomesticati, accontentati: si trovano in periferia e, anche questi, sono riservati ai giapponesi.
Si conserva ancora la memoria, qui a Kabuchico, di una tragedia che per qualche tempo spense anche la finta allegria di queste strade. Era una notte di inizio settembre del 2001 quando prese fuoco una sala giochi al pian terreno di un palazzetto del divertimento con il sexy bar nei piani superiori. Le ragazze erano vestite da studentesse, gonne a quadri, camicia bianca e sandali, qualcuna con la salopette, per allietare uomini dalla vita smarrita: una sessantina di euro l’ora per consumare bevande e fare qualche carezza alle ragazze, lasciandosi poi accarezzare da loro. Era venerdì sera, grande affollamento. I morti sono stati 44, 32 uomini e 12 ragazze, prigioniere di quel sexy bar. E ancora non si è capito se quella strage è stata figlia del caso o di un regolamento di conti fra le bande della mafia giapponese che controllano il mercato della prostituzione.
Kabiuchico è così, come altri quartieri rossi in giro per il mondo. Incuriosisce e respinge, per la violenza e la disperazione che si sentono in giro. A differenza di altre città, però, l’atmosfera è cupa e sgradevole, senza alcun senso di allegria. Buttafuori giganteschi, tutti vestiti di nero, controllano l’ingresso in alcuni locali, facce allarmanti vagano per le strade, spacciatori, ubriachi, gioventù rissosa. Chi arriva dall’occidente percepisce con chiarezza un forte senso di esclusione, quasi di disprezzo. Un posto da vedere, ma non con l’idea di passarci una serata.
La vera attrazione, per un curioso sguardo occidentale, sono semmai i capsule hotel, una specie di bara trasparente o di cilindro da risonanza magnetica dove i giapponesi dormono con tranquillità. Chi fa troppo tardi per prendere l’ultimo treno con cui tornare a casa, può affidarsi ai servizi di questa invenzione orribile, cubicoli due metri per uno e mezzo, sistemati in blocchi di tre, uno sopra all’altro, dove ci si infila per arrivare alla mattina dopo. Dentro ci sono tutti i confort: aria condizionata, lenzuola pulite, cuscino, la tv appesa all’altezza dei piedi, a disposizione video di ogni tipo, dai manga alle arti marziali. Si paga 5000 yen a notte, un po’ meno di 40 euro, bagni in comune ma servizio di barberia e camicie in vendita a 2 mila yen l’una, 16 euro.
Non sono l’unica specialità della fantasiosa industria dell’ospitalità nipponica. Molto frequenti, soprattutto dietro Shibuya, i love hotel, rifugi per amori improvvisi, coppie clandestine, fidanzati senza casa, per tutti quelli che in cerca di intimità non sanno dove andare. Certo, sono sempre meglio di una macchina, più sicuri e anche più comodi di una quattroruote. E poi, per incoraggiare la creatività delle prestazioni sessuali, ogni albergo offre ambientazioni diverse, che servono a ispirare o assecondare le diverse personalità. Camere da antichi romani o da faraoni, jungla o scogliera con ampia vasca da idromassaggio: prezzi dai 4800 yen per 3 ore fino alle 20 con sovrapprezzo se si resta in stanza fino a mezzanotte. A disposizione ogni tipo di accessorio, dai profilattici, di ogni colore, sapore, tipologia, compresi quelli fosforescenti e con colonna sonora che grazie a un particolare microcheap scatta nel momento dell’orgasmo maschile, fino agli attrezzi sadomaso e agli integratori stile Viagra.
<I giapponesi sono terribili. Talmente poco dotati fisicamente, intendo dire per dimensioni ma anche per capacità, quanto esigenti in tutto ciò che è accessorio>. L’esperta è Jane, bella australiana che si esibisce in un localino di Rappongi dove si lascia ammirare mentre balla mezza nuda dimenandosi intorno a una sbarra d’acciaio. <Certo, poi accetto appuntamenti. Trecento dollari l’ora, cinquecento per due, duemila dalle 20 alle 8>.
Più o meno succede dappertutto.
<Sì, però qui è un’altra cosa>.
Cioè?
<I giapponesi sono travolti dal lavoro, dal dovere dell’obbedienza, amano trasgredire ma spesso non ci riescono e allora chiedono cose stravaganti. Vanno molto di moda le divise. Adorano trovare una donna vestita da infermiera o da poliziotta, il loro piacere è nel subire l’autorità. Hanno un naturale istinto masochista, forse provocato dalla severissima disciplina, cardine della loro educazione fin da ragazzini e dalla quale non riescono ad emanciparsi mai, perché viene riproposta anche nel lavoro>. Sociologia spicciola, forse, ma applicata alla sua professione è diventata una chiave di interpretazione che le ha consentito di fare bei soldi. <Sto qui tre mesi e poi rientro in Australia per qualche settimana, poi torno a Tokyo>.
A Sidney ha un fidanzato, ufficialmente ignaro di tutto: <Sa che faccio la personal trainer in una palestra>. In parte è anche vero. Jane ha un fisico splendido, tipica australiana, efelidi comprese: <Mi tengo in forma e alleno qualche ragazza>.
Poi dal pomeriggio cambia vita.
<Una scorciatoia? Forse. Ma è comodo. Tokyo è quasi dietro casa, i giapponesi adorano australiane, russe e italiane: perché non approfittarne?>.
Italiane?
<Qualcuna ce n’è. Si affidano ad agenzie di escort che le smistano per il mondo: pubblicità sui siti internet, un’organizzazione che le aiuta a trovare casa, contatti e comincia l’avventura. Se una è bella, brava e organizzata, arriva a guadagnare anche 30-40 mila dollari al mese. Certo, non è facile, soprattutto all’inizio, anche per problemi di comunicazione: pochissimi parlano inglese. Ma ci si abitua a tutto, anche a questo schifo>.
La parte migliore della sua vita, dice Jane, è proprio il locale dove balla a Rappongi. E’ la Tokyo che brilla di notte, la città ricca e viziata. Qui le vie del sesso sono come quelle del resto del mondo, perfino la droga è la stessa, cocaina a go-go, fra sushi e sakè. <Non ne uso, ma ne gira a vagoni>.
Vagoni. Parola magica a Tokyo. Qui ci si sposta su rotaia ed è perfino divertente. Perché la metropolitana è la garanzia di vita e di puntualità. Per questo non c’è troppo traffico: la gente usa la metro. E’ una certezza: si sa dove e a che ora parte e arriva. E non si sgarra. Se per caso c’è un guasto o un incidente, sui display di tutta la città compaiono scritte con e informazioni e gli altoparlanti di ogni stazione diffondono messaggi con i cambiamenti di orari e itinerario. Ma il popolo della subway non si scompone mai. Restano in fila, dietro le striscette bianche o gialle che segnalano il posto esatto dove si apriranno le porte. Sempre lì, in quei 50 centimetri quadrati, da vent’anni e per l’eternità.