Il Reportage

Le mille luci di Tokyo
Manga, Anime e Cosplay

 

tokyo-city-fashion-at-night-wallpaperIl pavimento bianco in un sottopassaggio della metropolitana non è un azzardo, è una follia. Eppure a Tokyo c’è: se non l’hanno cambiato nelle ultime ore, brilla nella stazione di Shidome, dove viene calpestato ogni giorno da fiumi interminabili di persone e pulito da eserciti di lavapavimenti. Perché resta sempre bianco, senza ombre, macchie, pedate. Incredibile ma vero, come molte altre cose in Giappone.

Se si entra in un ristorante di Tokyo, sono due le cose che colpiscono. Alcuni hanno i piatti numerati in esposizione su un display, per rendere più semplice e veloce l’ordinazione, che si fa non ad un cameriere ma alla macchinetta automatica, spingendo il tasto con il numero e la fotina della pietanza scelta. Roba che a noi farebbe passare l’appetito. Invece questi miti giapponesi, guardano, valutano, riflettono, infilano i soldi, schiacciano il pulsante, si siedono al bancone, mangiano e vanno via. Senza aver sganciato una risata né fatto una parola con qualcuno. Dove non c’è l’ordine automatico, c’è il cameriere in versione robot, con auricolare e microfono incorporato, così guadagna tempo ed è sempre rintracciabile, pronto a fare quel che serve in ogni momento, portare un piatto o riapparecchiare una tavola.

crowded-commuter-trainDice: <tutto funziona>. Sì, ma a che prezzo? Mai visto all’ora di punta l’uscita di una metropolitana? C’è una moltitudine di replicanti, vestiti tutti uguali, abito grigio e camicia bianca, valigetta in mano, passo veloce, altezza simile, capelli tutti neri, silenziosi e a capo chino. Non si sente alcun vociare ma il rumore ovattato di migliaia di scarpe, un incedere silenzioso che appare triste, quasi irreale, come se si fosse dentro un carcere o al seguito di una mandria di gnu durante la migrazione in cerca dell’acqua. Ecco, forse il lavoro, per i giapponesi, è come l’acqua, la loro linfa vitale, la ragione di vita, il senso di un’esistenza.

Ridono poco, si divertono ancora meno. E si muovono sempre in branco. Perché sono tanti, certo, ma anche perchè questo è il loro stile. La tribuna rialzata dello Starbucks a Shibuya è il terrazzo affacciato su uno stravagante panorama umano. La luce verde del semaforo scatena sei eserciti pronti a lanciarsi in battaglia. Contemporaneamente. Si affrontano schierati su marciapiedi opposti, l’occhio attento a cogliere l’istante in cui il colore della luce cambia e ordina di camminare o restare fermi. Corpi in attesa di comandi, felici di obbedire e conquistare così lo spazio per poter attraversare la piazza a più alta concentrazione umana del mondo.

akihabara_district_tokyo__for_editorial_use_only_680Questa è la Tokyo delle luci e della ressa, degli schermi giganteschi agli angoli dei grattacieli, dei giovani che non hanno nulla e travestono i loro corpi nei modi più stravaganti per poter avere un attimo non di celebrità, ma di emozione privata, quando qualcuno punta contro di loro un cellulare e scatta una foto. Che verrà cancellata dopo pochi minuti.

E’ la Tokyo della disperazione che si traveste con il sorriso. Si incontrano orrori come le bambine mascherate da adulte, con le gambe nude se sono lunghe, un berretto sempre in testa, gli stivali di pecora anche d’estate. Poco trucco, almeno quello, per rispetto dell’età. Si ritrovano in capannelli accanto ai semafori ed è solo un assaggio di quel che avviene nel weekend da un’altra parte della città, ad Harajuku, autentica fucina di tendenze giovanili. La sociologia ha dato interpretazioni complicate del fenomeno Cos-play-zoku (la gang della commedia in costume), un travestimento di massa con abiti ispirati ai divi tv, dei manga o semplicemente una passerella in stile punk e qualche intrusione gay. Il risultato è una folla, soprattutto di ragazzine, che invadono la stazione Omote-sando della metropolitana, bivaccano sul ponte Jingu-bashi impersonando i protagonisti delle <anime>, i cartoon giapponesi, e fingendosi dark, sadomaso – qui va molto di moda il bondage – con indosso giarrettiere e microgonne, calze autoreggenti e hot pants, simboli di un’improvvisata e disarmante provocazione. Sempre meglio loro, comunque, della fila di depressi. Hoshi, vent’anni, piange lacrime di sangue, disegnate su un viso da adolescente, candido di cipria e carico di tristezza. Il suo nome significa sogno ed è quello il suo orizzonte di vita: <Sbagliate a considerarci pupazzi sull’orlo del suicidio – dice – imitiamo personaggi che ci piacciono, che male c’è?>. C’è che sono brutti, sembrano angosciati, anime tormentate vestite da <gothic lolite> e vampiri. Ma anche quando abbandonano fetish e dannati, anche quando indossano abitini da <bonbon girl>, tutte rosa confetto in stile <Candy Candy>, diventano la caricatura di una felicità esibita, che non c’è e appare perfino irraggiungibile.

18j3cha3i17hyjpg Allo stuolo di agghindati sbandati si aggregano anche patetici vecchi, travestiti nello stesso modo per imitare i ragazzini, ma con molte rughe in più e parecchi denti in meno. Ci sono pure trans apparenti, vestiti con sciatteria, timidi, in fondo, nell’ostentare orribili calze a rete e spaventose scollature. Tutti, davanti all’obiettivo, fanno il segno V con le dita, indice e medio della destra aperti, come se avessero qualche vittoria da festeggiare. La verità è che portano da casa enormi solitudini che abbandonano, o si illudono di farlo, vivendo una giornata intorno al ponte. Poi a sera, le rimettono nella valigetta dove hanno riposto gli abiti di scena e tornano a casa, a riconsegnarsi alle loro tristezze, nei giganteschi casermoni dormitori delle periferie battezzate con nomi che per loro sono un incubo e da noi fanno sognare: Kawasaki.

L’altra faccia di Tokyo si vede raramente. La metropoli delle difficoltà non è soltanto nei sobborghi, dove si fatica a sopravvivere, una manciata di metri quadrati per famiglie sempre numerose, distanze enormi fra casa e ufficio o fabbrica, una criminalità organizzata e aggressiva che sa essere spietata o convincente, dipende se l’esigenza è fare cassa o reclutare nuovi membri per le gang. L’altra Tokyo è anche in pieno centro.

UenoParkHanamiAll’ingresso del Parc Ueno vendono banane cotte e caramellate. Per renderle ancora più invitanti agli occhi golosi dei bambini, le colorano: rosse, marroni, gialle, alcune di un incredibile azzurrino. Sui piccoli fanno l’effetto desiderato: si agitano sui passeggini, le vogliono, piangono, le additano come un agognato oggetto del desiderio. E quando finalmente riescono ad ottenerle, quando i genitori cedono e le comprano, ecco che si passa alla parte artistica della merende: tutti in posa con la bananina in mano, prima ancora del morso, c’è la fotografia. E’ lo sfondo, che inquieta. In questo parco gigantesco, pulito e in ordine come da noi solo con un piccolo giardino si potrebbe riuscire a fare, qui dove si allinenano alcuni fra i musei più importanti della città, proprio qui trovano rifugio decine e decine dei 30 mila senza tetto di Tokyo. Dormono seminascosti da da alberi o panchine, protetti da siepi e cartoni che la mattina ripiegano, nascondono dietro i tronchi prima di lasciare il parco e andarsene in giro per la città, per rispettare un accordo mai siglato con chi li tollera di notte ma vuole che di giorno non diano fastidio a nessuno, neppure con la semplice presenza. E infatti non si vedono mai fino al tramonto, solo di rado compaiono intorno a mezzogiorno, quando viene organizzata una distribuzione di pasti caldi. E allora li vedi in fila davanti a una specie di camion bar, ordinati, pazienti, silenziosi, qualcuno perfino con la mascherina sulla bocca, come se avesse una salute, o un futuro, da difendere. Aspettano in piedi e fanno pensare a sfollati di guerra, a vittime di un terremoto, a prigionieri di un campo di concentramento, a quell’umanità sfortunata e tradita dal mondo che spera solo di sopravvivere ancora. Finchè il cibo arriva, confezione regalo in un contenitore di cartone, e ciascuno va lontano dagli altri, non si raduna nessun gruppo, non si condivide il pasto ma si mangia in solitudine, con lentezza e senza sporcare per terra.

Park-Hyatt-Tokyo-dining-room-city-view-sunsetUn’isola infelice, quel parco. E fa impressione pensare che il mondo scintillante è appena li fuori, che basta qualche fermata di metropolitana per raggiungere lo sfarzo di chi non ha pensieri, appena il tempo di salire su un convoglio con aria condizionata, guardare sulla tv del vagone le ultime quotazioni di Borsa, e si raggiunge un altro genere di Park, rifugio del lusso e delle tentazioni. Però bisogna stranamente camminare un po’, perché questo è uno dei pochi posti che a Tokyo non ha una fermata metro vicina, forse per un tentativo di isolazionismo voluto. Si chiama Hyatt questo Park che è un albergo superstellato, immenso e stravagante, dove la reception non è in strada ma al piano 41, vista pazzesca, un eccitante combinazione di cristalli e acciaio che costruiscono un’atmosfera da mondo lontano, un altrove calato per poco tempo in questa terra, quasi un sogno che si sa essere irreale, ma dentro il quale si vive volentieri, almeno per un po’. Lo sa bene il giapponese seduto vicino a me, attrezzato con una <toy girl>, una giovane e anche bella sua connazionale che si sforza di far ridere e per riuscirci parla, parla, parla, con qui suoni gutturali, a scatti, fastidiosi e mai sottovoce, senza abbandonare nemmeno per un istante quel tono autoritario che divide questo mondo in chi da ordini e in chi li esegue. Lei obbedisce: e ora si alza e lo segue, senza uscire dall’albergo. Chi resta al bar, intorno al bancone a semicerchio, costruito così per favorire amicizie immediate, diventa prigioniero di questo diffusore di delizie e delicatessen, e anche di abbinamenti e combinazioni gastronomiche tutte da scoprire, granchio e cetriolo, salmone e avocado: certo, si pagano anche 2000 yen per un sandwich, quasi 15 euro. Però non hanno il tè bianco.

<Bianco lo vuole? – mi risponde il cameriere un po’ infastidito -Non le bastano il verde e il nero?>.

I colori del tè mutano e il bianco ora impazza: c’è chi lo offre, in confezioni speciali riservate ai matrimoni. Così c’è scritto, poi chi lo compra lo usa come vuole: 7 mila yen l’etto, 50 euro.

dscn9073Quasi la mancia che si aspettano gli anziani travestiti da samurai fermi agli angoli di Ginza, quartiere elegante e ricco, le strade dello shopping, pronti a chiedere denaro a chi li inquadra e scatta una foto. Come i centurioni del Colosseo. Solo che a Roma il prezzo lo scandiscono per sillabe prima di scattare le foto, qui invece lasciano fare e poi ti inseguono. Un fatto di stile, oltre che di simpatia. Le signore in kimono, invece, sono autentiche: vestono così perché adorano la tradizione, l’eleganza di quell’abito, la meraviglia di quei tessuti. Non ne ho viste molte, ma tutte quelle che ho visto vestite in kimono sorridevano. E sarebbe strano fosse solo un caso. Il finto Samurai, invece, grugnisce e fa versacci. Stona quel telefono con l’auricolare, che usa come strumento di lavoro: i suoi compari lo spostano in tempo reale quando arrivano pullman carichi di turisti in un tratto di strada non lontano. Lui accelera il passo e va a caccia di obiettivi. A Tokyo non c’è umano che non si serva dell’auricolare: utile nel lavoro per migliorare la qualità del servizio, vantaggioso, secondo loro, anche nella vita privata. La verità è che qui hanno fatto una scelta precisa e, sembra, irrevocabile: privilegiare il lavoro rispetto ad ogni tipo di affare privato, anteporlo a tutto, famiglia compresa. Fra qualità della vita e qualità del lavoro scelgono la seconda, senza esitazioni, pronti a rinunciare a molto, per non dire a tutto, pur di sentirsi – e apparire – efficienti e produttivi. Ritmi che uccidono nel morale e distruggono fisicamente: infatti, appena può, il giapponese fa una pennica, recupera attimi, minuti, ore di sonno. A noi, tutto questo appare come una crudele e intollerabile dittatura del lavoro, con poche ferie, un’omologazione assoluta, scarsa autonomia, nessuna fantasia. Ma è il Giappone, bellezza.

Tratt0 da “La mia Asia – Trent’anni di viaggi in Oriente” Lt Editore

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